✍ All’ultimo banco

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Loasses. Loasses Alfredo. Non è stato facile, è stato un continuo rimestare nelle nebbie del passato ma, alla fine, dopo oltre trent’anni, sono riuscito a ricordare il nome del mio primo compagno di banco alle elementari. Piccolo, minuto, taciturno, capelli arruffati con la frangetta, occhiali screziati cadenti sul naso attraverso i quali due occhi stanchi erano persi perennemente nel vuoto. Sembrava, e forse lo faceva davvero, dormisse ad occhi aperti. Dopo alcuni giorni la maestra rimescolò le carte, e il mite Alfredo fu piazzato proprio davanti alla sua scrivania, vicino a Sessa. Un biondino tutto pepe, assolutamente indifferente a tutto ciò che gli accadeva intorno. Rideva sempre, spesso da solo. Con un moccio denso stampato sotto una narice.

La mano stretta di mia madre che mi trascina a scuola e l’immediato rientro a casa, da fuggitivo, sono immagini ancora vivide, nonostante tantissima acqua sia scorsa sotto i ponti. Così il mio primo giorno di scuola diventò forzosamente il secondo. Guardato a vista dalla maestra e dal bidello, a prevenzione di altre evasioni. Chissà forse il mio istinto mi suggeriva, nell’unico modo possibile per un perdente nato, che era molto meglio bighellonare, libero e spensierato, che andarsi a cacciare nei guai, ad imboccare una strada che non poteva non essere lastricata di sofferenze e batoste. Comunque, poi, ho capito che c’era chi stava messo peggio di me.

All’inizio i banchi erano di legno, in un pezzo unico. Sedile e piano di scrittura che, grazie ad una cerniera, poteva essere sollevato, lasciando così spazio per riporre quaderni, libri e quant’altro. Sull’estremità anteriore c’era una scanalatura per la penna e, a fianco, un foro per la boccetta d’inchiostro. Erano di un colore marrone scuro, e rovinati da graffi e solchi giallastri. L’anno dopo sparirono, soppiantati da una sedia e un banchetto rivestiti di fòrmica verde. Sulla parete posteriore dell’aula, sempre in fòrmica, pomelli per appendere gli abiti e su quella anteriore l’immancabile crocifisso sovrastato da un altoparlante nero con la griglia color panna. Più a lato la foto del presidente della repubblica Gronchi. L’altoparlante gracchiava una sola volta al giorno, al mattino. Appena entrati, dopo qualche borbottio, allietava le orecchie con l’Ave Maria di Schubert.

Figura leggendaria era il capoclasse. Carbonaro Nestore ricoprì questo importante compito per tutti i cinque anni. Piuttosto alto per l’epoca fisiologica, Carbonaro non sorrideva mai. Sempre serioso forse per carattere, forse per senso di responsabilità, o forse perchè all’epoca i bambini erano già vecchi. Però non era una carogna. Ed era anche intelligente e studioso. Chissà se solo per attitudine o, anche, per compiacere il padre, sempre alle calcagna, e per sostenere l’immagine che ormai tutti avevano di lui. La classe rifletteva naturalmente i tempi. Perciò la gran parte dei ragazzi erano poveri. Sulle dita di una mano si contavano, invece, i figli della piccola borghesia emergente. Carbonaro era uno di questi. Io, invece, stavo nel mezzo, né carne, né pesce. Limbo di indeterminatezza che è diventata costante della mia vita.

Di Sessa, in realtà, ce ne erano due. Quello appetto la maestra, e il suo gemello in terza fila all’ala destra. Identici nell’aspetto, lo erano anche nel carattere e nell’indifferenza. Forse avevano capito, molto prima degli altri, la discrepanza dell’istituzione dal mondo reale. Solo il moccio cambiava posto. Vivevano, si fa per dire, in un basso del borgo di S.Antonio Abate, un dedalo di viuzze trasformate in mercato all’aperto. Insieme con i genitori e non so quanti altri fratelli. Se non ricordo male in quel basso, scuro e maleodorante, c’erano stipate tredici persone.

La maestra, la signora (o signorina ?) Cevoli Bianca, incuteva timore e rispetto. Per la sua bruttezza arcigna ma, ancor di più, perché non si staccava mai da una spessa bacchetta di legno, con la quale deliziava il palmo delle mani in caso di presunte manchevolezze o disattenzione. Il bruciore che l’astina educativa lasciava al suo passaggio era violento e duraturo. Rimaneva impresso nella mente più a lungo del rossore sulle mani. Riesco a percepirlo, a riviverlo persino ora.

Nappa Paolo era gigantesco. I suoi lineamenti grossi, con il naso camuso e le labbra tumide, e i capelli rasi quasi a zero, gli conferivano un’aria minacciosa. Invece era un buon diavolo e spesso si ergeva a paladino dei più deboli. Tutore Antonio , suo compagno di banco, divenne anche suo amico per la pelle. Erano indivisibili, dentro e fuori la scuola. Poi, da grandi, le loro strade si separarono clamorosamente, per quel che mi è dato sapere e ricordare. Molti anni dopo ritrovai Tutore a contendere il cuore della graziosa  Gelsomina. Manco a dire che ne uscii perdente.

Sono certo che il censo e l’intelligenza avranno portato Carbonaro verso traguardi soddisfacenti. Così come sono certo che, per la gran parte di quella classe, il censo e solo quello, è stato invece condizionante. Non erano ancora i tempi degli intrallazzi e delle camarille o della criminalità spinta. Pertanto bar e meccanici avranno attinto a piene mani per sfruttare la loro innocenza e la loro fame atavica. L’intelligenza, che a molti non mancava, forse anche più viva e frizzante dello stesso capoclasse, non è servita a nulla. Calpestata, uccisa. Del resto è quello che accade tutt’ora, dove sapere e meriti contano meno dei soldi e degli appoggi. Anzi non contano per niente.

Si era sotto Natale e, quindi, il tema che la maestra somministrò fu :” Quale regalo vorreste per il Santo Natale? ”.

Nono figlio di venditore ambulante, domiciliato in un basso di via Cavallotti, Pasquale Canciello non ebbe dubbi e, in pochi minuti, fece il più bel tema della classe e uno dei più belli che io ricordi.

Canciello aveva  il grembiule celeste sempre spiegazzato, il collettino bianco di sbieco e le scarpe sfondate. Il suo posto era in fondo, all’ultimo banco. Non era loquace e non sapeva nemmeno esprimersi in un italiano corretto, ma non era stupido. I suoi occhi esprimevano maturità e senso del dovere. Pragmatismo. Sapeva bene, insomma, quale sarebbe stato il suo destino. Ma non se ne faceva un cruccio. Non si sentiva inferiore. Era pronto ad affrontarlo, così come gli era stato concesso. Dopo la scuola, che marinava spesso e volentieri, correva ad aiutare il padre nel suo lavoro. O la madre nelle faccende domestiche.

Scrisse semplicemente: “ vorrei solo un bacio del mio papà”

✡ fatti e personaggi di questo racconto non sono opera di fantasia

5 Replies to “✍ All’ultimo banco”

  1. molte di quelle cose le ho vissuto anche io ma il ricordo non è così vivido e bello per quanto lo hai esposto tu e gli elogi che vedo sono ben meritati…. nella foto ti ho riconosciuto immediatamente e non ricordavo l’episodio del primo giorno, all’epoca anche se più grande ero piccolo anch’io

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