Non c’è nulla di più bello d’una chiave, finché non si sa che cosa apre.
(Maurice Maeterlinck 1862-1949)
La conobbi durante la pausa pranzo di un noioso e inutile convegno di lavoro. Sedette accanto a me, infastidita e intristita. Vicino a uno sconosciuto, fra sconosciuti. Lontana dai suoi amici che avevano occupato un tavolo dal lato opposto della sala. Mi guardò di sbieco coi suoi occhi grandi e grigi, ed esternò senza mezzi termini il suo fastidio, il suo rammarico per non essere dove avrebbe dovuto. Maledicendo se stessa per essere arrivata in ritardo e gli idioti della sua cricca che non erano riusciti a trovare sistemazione migliore. Per lenire il suo disappunto e il mio, scostai la sedia e andai via.
Mi raggiunse per strada, pregandomi di scusarla e tornare indietro. Ci scrutammo a fondo. Apprezzai il suo gesto e,volando con la fantasia, la seguii senza opporre alcuna resistenza.
Passai con lei le settimane più belle della mia vita, anche se mi rendevo conto che la nostra avventura non poteva non essere che a orologeria. Troppe le differenze che ne minavano la trasformazione in una storia. Comunque la vissi in modo pieno, contrariamente al mio solito cercando di non pensare, di non vedere oltre, di vivere l’attimo, l’emozione. Il navigare a vista, tuttavia, non impedì ai miei pochi neuroni di arrovellarsi sul perché una giovane donna avvenente quanto intelligente , avesse potuto scegliere un essere insignificante, per giunta anche vecchiotto, tra miriadi di espressioni migliori nel genere. Conclusi, e comunque mi stava bene lo stesso, che lo avesse fatto per arricchire la sua esperienza. Le conseguenze del suo spirito d’avventura, della sua curiosità.
Così dopo trentatré giorni e sette ore sparì d’incanto, lasciando la chiave sul comodino. Non la rividi mai più, né seppi mai il suo nome.
Vissi di rendita per qualche anno. Poi ripiombai nelle mani dei miei fantasmi. Antichi, come me.
Immagine: Georgette Magritte,Rene Magritte 1934