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Olympus Digital Camera

Napoli, Archivio storico del Banco di Napoli, giugno 2022

✍🏾 Il monitore napoletano

Scortato da due gendarmi, il giudice Vincenzo Speciale lasciò la fortezza della Vicarìa per sgranchirsi le gambe e prendere un po’ d’aria. Non era una sua abitudine, anzi, ma quel giorno aveva una fastidiosa quanto improvvisa agitazione interiore che gli impediva di concentrarsi, di poter svolgere il suo ufficio col solito dovuto zelo.

Mai prima di quel giorno, di quel momento, si era sentito così incerto, dubbioso, titubante e persino magnanimo. Mai prima di allora aveva avvertito un moto di pietà per un condannato. Camminava, dunque, a testa bassa e con le mani incrociate dietro la schiena, chiedendosi se la stanchezza e l’avanzare dell’età gli stessero giocando un brutto tiro, se stessero per incrinare una radiosa carriera. Avrebbe voluto estirpare quell’insopportabile inquietudine per poi lanciarla via quanto più lontano possibile ma, paventava invece, che non se ne sarebbe liberato tanto facilmente, se non addirittura mai. Doveva fare qualcosa,  e presto. Doveva riprendere il controllo di se stesso, ma come? 

In preda al panico, dunque, e non senza remore, pensò che forse era il caso di sentire il suo mentore, l’ammiraglio Acton. Col rischio, concreto però, di perdere la testa se il Segretario di Stato avesse percepito nella sua confessione il pur minimo segno di cedimento, di simpatie giacobine. Decise, quindi, di dormirci sù, di riflettere prima di fare passi avventati e, così, si ritirò a casa per affrontare una notte che sperava, ardentemente, potesse suggerirgli qualche soluzione.

Il risveglio parve foriero di buone vibrazioni. Guardandosi allo specchio rivide, ritrovò lo sguardo feroce e spietato che confermava il ripristino del pieno possesso delle sue facoltà: la notte, come aveva sperato, aveva spazzato via quelle insane debolezze.

Aveva però bisogno di una controprova, di una verifica sul campo. 

Donna Lenòr sedeva impettita di fronte a lui, ormai da ore, senza il minimo imbarazzo o cedimento. Anzi per la verità sembrava fosse tranquilla, come altrove. Non aveva mai negato il suo coinvolgimento, il suo ruolo nella rivoluzione, né era disposta ad abiurare, e men che mai a tradire i compagni ricercati e tutti quelli che in qualche modo avevano ordito contro il regno, fosse anche solo col pensiero. Con quel perenne sorrisetto sotto i baffi si burlava chiaramente di lui, palesando inequivocabilmente il suo disprezzo.

Quella donnina saccente aveva scherzato col fuoco sin troppo. Invece di dedicarsi a quello per cui era stata creata, cioè a far figli e mandare avanti la casa, accudendo servizievolmente il marito o, in mancanza, donare piacere agli aventi diritto, s’era messa in testa di sovvertire nientemeno che il Regno. Antipatica e presuntuosa aveva sfidato l’ordine costituito e, anche in quel frangente, si faceva beffe del Capo della Polizia del Re nonché membro della Giunta di Stato. L’unico che avrebbe potuto salvarle la testa.

Non avrebbe alzato nemmeno mezzo dito per evitare il capestro a quella malafemmina antipatica e brutta per giunta, che non sapeva stare al suo posto. Per quella portoghese altera che s’era illusa di sobillare un popolo che non solo non le apparteneva, ma che non l’avrebbe mai seguita, ben ammaestrato com’era. Stupida, anche, dunque.

✍🏾 i migliori anni della nostra vita

La signorina Scognamiglio aveva una fissazione, anzi un’ossessione: che il suo cognome fosse confuso, e recepito con la elle doppia  al posto della gli finale. Perciò, tutte le volte che era necessario declinarlo scandiva, con voce lenta e stentorea, il suo patronimico acciocché l’interlocutore non potesse in alcun modo fraintenderlo con Scognamillo. Le immani difficoltà, quasi sempre ai limiti dell’invalicabilità, che aveva dovuto più volte affrontare per potervi porre rimedio, giustificavano ampiamente la sua mania, anche quando espressa al di fuori della miriade di incombenze burocratiche che costellano, perfidamente, un’esistenza,  

Nonostante fossero dirimpettaie di pianerottolo, e si conoscessero da svariati anni, lei e la signorina Parascandalo si detestavano.  A dispetto dei sorrisi e delle smancerie che si scambiavano allorché la sfortuna faceva in modo di farle incontrare. Entrambe alquanto avanti negli anni, entrambe raggrinzite e arzille, entrambe sole, avevano un sostrato familiare e culturale così diverso da farle collocare agli antipodi. Seppur fosse soprattutto la reciproca antipatia a pelle a impedirne qualsiasi contatto. L’unico punto d’incontro, sincero, tra le due era il mal comune mezzo gaudio. La Parascandalo, infatti, come e più della Scognamiglio, sillabava costantemente il suo cognome onde tentare di evitare, prevenire lotte furiose per correggere, annullare, rettificare i vari Palescandalo, Palescandolo, Palascandalo, Palascandolo, Parescandalo e Parescandolo che avevano martoriato la sua esistenza. 

La Parascandalo, negli anni ruggenti, aveva scorso la cavallina senza risparmiarsi. Tanto da farsi una cattiva nomea che la perseguitava anche negli ultimi immacolati scampoli della sua vita in cui il sesso, divenuto ormai solo carattere distintivo, alimentava esclusivamente ricordi fantastici. Talora anche vividi ed esaltanti ma, di fatto, meri fossili incapaci nemmeno di surrogare i fasti dell’era dei sensi.

La sua dirimpettaia, invece, aveva fatto unicamente casa e chiesa, tanto da conservare la sua verginità intatta sino alla veneranda età raggiunta. Non che non avesse avuto le sue occasioni, solo che in un modo o nell’altro, era sempre riuscita a fuggire al momento opportuno evitando il peccato, ovvero a respingere con la sue ferree intransigenza e selettività. Perciò, a differenza della Parascandalo, i suoi ricordi grondavano di rimpianti.

Nonostante ciò, nonostante il reciproco disdegno, tutte le domeniche e i dì di festa pranzavano insieme, ora dall’una ora dall’altra. Un convivio stentato ma, nel complesso, preferibile alla solitudine. Ciò, dunque, accadeva e a maggior ragione anche a Pasqua e a Natale.

E Natale venne anche quell’anno, nello screpolato palazzetto delle zitelle con affaccio sul cimitero degli inglesi. Col suo carico di millemila vane aspettative. Con la sua vanga a scavare, senza pietà, nei dolori,  nei rimpianti e nei livori, e a rimestare nel pozzo senza fondo della depressione.

Nessuno, nel palazzo, e per mesi, notò l’assenza delle due donne, benché  il loro cicaleccio tra i pianerottoli avesse sempre dato una mano di colore al funereo ambiente che sapeva di muffa, cipolle e piscio di gatto. Di canzoni in vernacolo sparate a tutto volume e trambusti equivoci quanto molesti. E quando ciò accadde fu per occupare abusivamente i loro modesti appartamenti, prima che il proprietario potesse disporne.

Donna Arascan e donna Coñamel erano le sarte migliori del posto.  Ma cucivano solo quando avevano voglia e a chi stava loro simpatico. Il che, per la verità, accadeva alquanto di rado (ma con risultati eccellenti). Elle infatti preferivano oziare, cullate dalla brezza tiepida, sulla spiaggia al cospetto dell’oceano. Fino a tarda ora. Momento in cui, dopo aver consumato un frugale pasto offerto dai pescatori, si rintanavano nel letto e si raccontavano, ridendo felici, tutte le sciocchezze che avevano fatto in gioventù. Quando credevano ciecamente nella giustizia della vita, e nella bontà dell’uomo.